Domenica 13 agosto 2023 – XIX TOA – Matteo 14,22-33
Qol demamah daqqah. Il sussurro di una brezza leggera leggiamo dal primo libro dei Re. Voce di silenzio sottile, si potrebbe tradurre più fedelmente. Parole per dire Dio e per dire dell’esperienza di lui. Si possono dire di me e dell’esperienza che di me gli altri fanno? Ma torniamo ad Elia, il profeta in fuga sul monte da Gezabele dopo aver passato a fil di spada 450 profeti di Baal, culto idolatrico a cui Elia aveva dichiarato guerra. In fuga anche da se stesso, probabilmente, e dall’idea che si era fatto di Dio, un Dio a misura di sé, un Dio a servizio della sua idea di mondo. Ma abbiamo continuato e continuiamo a trattare Dio così. Dio è quel che penso io di lui e quindi io sono dio. Ma Dio non è nell’arroganza del vento impetuoso e gagliardo che spacca i monti e spezza le rocce. Dio non è nella violenza del terremoto. Dio non è nella superbia del fuoco. Qol demamah daqqah. Dio è in una voce di silenzio sottile che rischi di non sentire tanto è flebile, delicata, umile, piccola. Tutt’altro, rispetto alla tracotanza di noi e dei sistemi che abbiamo messo in piedi prevaricando su tutto e tutti per preservarci. Voce di silenzio sottile. A partire da quanto detto fin qui come leggere l’episodio del vangelo: Gesù che cammina sulle acque? È un prodigio, uno di quei miracoli che lascia a bocca aperta, è qualcosa di incredibile. Ma così come il pane e i pesci distribuiti in sovrappiù ad una folla sterminata piena di fame. Dovremmo ricordarci che i miracoli sono in realtà segni, non manifestazioni pirotecniche per lasciare a bocca aperta chi guarda. Dietro il miracolo del pane non c’è forse il segno di una comunione che sgorga dalla condivisione? E il miracolo del camminare sulle acque non è il segno di un Dio che testardo, cocciuto ci raggiunge ovunque e comunque sul limitare di ogni notte perché sia giorno sempre, di nuovo? Dio è la mano tesa come ogni mano che mi raggiunge nella paura di non farcela. Dio è il pane spartito da ogni cuore che non trattiene tutto per sé. Dio è sì folla sfamata ma è anche colui che congeda la folla. È una sottigliezza, se volete. Ma dice di Dio molto più di tanto altro. E può dire di noi, di quel che può fare la gentilezza, non solo l’evidenza della forza che mettiamo in campo. Del fatto che non siamo fantasmi, cioè presenze fatue, inconsistenti, insignificanti, ma reali e necessarie. Presenza che assottigliano le paure, le ridimensionano. Quanto si allarga la paura quando siamo soli, abbandonati a noi stessi, in balia di onde e vento. Camminare sull’acqua, è l’impossibile necessario che invoco io dentro la paura, al cuore delle notti. È voce disperata in altre notti, drammatiche anche più delle mie dove esserci per tendere mani, per farsi presenti come qol demamah daqqah, come voce di silenzio sottile. Io che ci sono e non aggiungo paura alla paura. Io che ci sono come Dio, io che non ti faccio paura, io che ti accolgo e così il vento finalmente tace.
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