Domenica 23 agosto 2020 – XXI TOA – Matteo 16,13-20

Pubblicato da emme il

Conosciamo questo testo che incontriamo anche in Marco al capitolo 8 e in Luca al capitolo 9. È la cosiddetta confessione di fede di Pietro. Qualche giorno fa ho scovato, per il solito foglietto settimanale, un’immagine di cui non so dirvi l’autore, ma che mi ha subito catturato. I due in primo piano sono sicuramente Gesù e Pietro, l’uomo con una candela in mano, potrebbe essere il simbolo della sua fede. Lo sguardo di Gesù è perso in noi e la domanda è la stessa che pone e ripone ai suoi discepoli. Per questo ci guarda, sta provocando la nostra risposta: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro risponderà dicendo: “Tu, sei il Cristo…”. E poco più avanti Gesù, rivolgendosi a Pietro, gli dirà: “Tu sei Pietro…”. Questo dialogo che approssima, che avvicina, ci immerge nell’idea di un rapporto non solo filtrato, mediato, tra noi e Dio, di un rapporto decisamente franco, immediato, personale. A Dio, con Gesù, cominciamo a dare del tu. E il rapporto diventa naturalmente più intimo, si apre all’intensità, supera le formalità, le convenzioni, i protocolli, gli intermediari… come siamo messi a rapporto con Dio? Bella domanda. È colui a cui diamo del tu, o colui a cui diamo ancora del lei, ma in realtà per non avere con lui un rapporto che gli consenta di provocarmi, di mettermi in discussione. A me capita che qualcuno si ostini a darmi del lei, anche se potrebbe benissimo darmi del tu e ho l’impressione che possa voler dire… sta sul tuo, non azzardarti ad avvicinarti troppo. Può capitare anche con Dio, gli diamo del lei perché stia sul suo. Tornando all’opera… potrete vedere sullo sfondo, nel paesaggio che si apre oltre l’inferriata, due immagini, non so se riuscirete a distinguerle per come sono riprodotte nel foglietto. Una torre, che è riconoscibile come la torre di Babele… sono tantissime le immagini che la ritraggono proprio così. Più a destra intravvedete un uomo che sembra un crocifisso o un uomo che sta bruciando nel mezzo di un rogo che divampa e davanti a lui un soggetto con un arnese in mano… forse una lancia, quella con cui fu trafitto il costato di Cristo, o una pertica con una spugna infissa, quella con cui fu dissetato Gesù che diceva: “Ho sete”. Cosa vuole dirci l’autore inserendo quelle immagini? Forse, e così spieghiamo anche perché Gesù, dopo la confessione di Pietro, dice ai suoi di non dire che egli era il Cristo, che il titolo che Pietro gli affibbia potrebbe essere ambiguo. Che Cristo sarà, che Messia sarà, cioè che Dio sarà? Non possono esserci fraintendimenti, il Dio a cui dare del tu è il Dio che finisce sul patibolo. Così tanto innamorato dell’uomo da rimetterci le penne… e se fosse un rogo, racconterebbe di tutti coloro che nella lunga avventura cristiana, per aver condotto vite che si approssimano, che si piegano, come Gesù, hanno consegnato la vita. La torre di Babele è l’immagine di cui l’autore si serve per dire che cosa non è la chiesa, che cosa non deve essere la comunità dei discepoli del vangelo. Per il Dio con cui abbiamo a che fare che chiesa siamo di conseguenza? È una chiesa a cui poter dare tranquillamente del tu, o una chiesa davanti alla quale inchinarsi perché mette paura, fa soggezione? Mamma mia! Quella torre resterà incompiuta perché l’uomo che la vorrebbe innalzare è l’uomo di ogni tempo e di ogni latitudine che vorrebbe un mondo compatto, una società fatta di uguali, dove non ci sono sbavature, dove non c’è spazio per la differenza, dove la diversità non è benedizione ma al contrario maledizione. Nel passo di Genesi in cui si racconta di Babele, Dio scende e confonde le lingue. Gli uomini finiscono per non capirsi più. Meglio così, faranno la fatica di imparare la lingua dell’altro e cominceranno ad apprezzare anche le sue differenze, le sue stranezza, la bellezza che si esprime in mille modi, non nel monotono ripetersi e nel perpetuarsi di schemi fissi. A Pietro, Gesù, che resta la Pietra, consegna le chiavi perché la chiesa, la comunità di cui sarà servo, resti casa da aprire alla differenza, all’unicità di ciascuno, all’originalità di ognuno. Sciogliere ed aprire, questa è la vocazione della chiesa perché questo ha fatto Gesù abitando il mondo: ha sciolto, slegato, aperto… liberato. E noi, discepoli oggi dello stesso vangelo, cosa siamo, che chiesa siamo. La chiesa che apre o che chiude, la chiesa che scioglie o lega, la chiesa che libera o incatena. La chiesa, sì, quella che ha la mia faccia. La chiesa non è sempre altro, la chiesa sono io, la chiesa è quello che decido che sia. La chiesa sono io a farla. Quindi attenti a che chiesa insieme stiamo edificando. Non è proprio tutto lo stesso.

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Il quadro è del pittore russo Il’ja Sergeevic Glazunov, nato a Leningrado nel 1930 e morto a Mosca il 9 luglio 2017. Il quadro del 1985 rappresenta il non dialogo (vedi torre di Babele) tra Gesù e il Grande Inquisitore dai “Fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Il rogo sullo sfondo è un richiamo all’inquisizione.

Mi è stato detto dopo che avevo fatto la predica… da un attento uditore… che ringrazio.


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