Domenica 27 agosto 2023 – XXI TOA – Matteo 16,13-20

Pubblicato da emme il

È uno snodo decisivo quello in cui ci imbattiamo leggendo il vangelo. Potremmo sostare sulla figura di Gesù o su quella di Pietro o sul fatto che dicendo qualcosa di Gesù, Pietro finisce per capire qualcosa in più di se stesso. E invece vorrei dire della chiesa che certo si definisce a partire da Cristo, la pietra su cui si edifica, e da Pietro, colui che edifica sopra la roccia che è Cristo. Cos’è la Chiesa? Me lo domando spesso e ciò che mi rammarica è che mi ritrovo a macinare pensieri non sempre così positivi ed entusiasti. Ma non sto pensando solo alle alte sfere, alla chiesa-gerarchia che facilmente catalizza il malcontento di tanti, o perché, secondo alcuni, non è più così direttiva e identitaria, o perché non è ancora sufficientemente al passo coi tempi, per altri, io sto fra questi. No, no. Sto pensando alla chiesa che siamo, noi, anche se non vorrei correre il rischio di identificare la chiesa al sempre più ristretto manipolo di persone che frequentano la messa domenicale. Ma poi mi vien da dire, certo con una vena di polemica: puoi dirti chiesa se non ti ritrovi mai o quasi mai a celebrare la tua fede con altri, a crescere nell’ascolto condiviso della Parola? Ma noi che ci siamo, cosa siamo? Siamo chiesa? Ho l’illusione di pensare, per il fatto che qui facciamo comunione, non solo la comunione (anche se ho l’impressione che qualcuno venga qui a consumare in solitaria il suo pasto eucaristico), che siamo comunità. Ma è così? Siamo comunità? Nutro purtroppo dei dubbi abbastanza forti. Forse è illusorio pensare che si possa essere comunità quando siamo così tanti, a volte ancor di più. Se la comunità è lo spazio fatto da chi si riconosce, da chi sa pronunciare il nome di chi gli sta intorno, da chi sa se stai bene o se stai male, da chi non esita ad aiutarti se sei nel bisogno, da chi ti sostiene concretamente nella necessità… da chi sa, vede e quindi fa per l’altro. Questa è comunità, una comunità alimentata, sostenuta, motivata dalla stessa Parola che si ascolta, magari insieme, e dallo stesso Pane che si spezza. Forse sto solo alimentando l’illusione, il sogno perché la realtà è ben diversa e la chiesa non può che respirare l’aria che tutti respiriamo: quella di un tossico individualismo, di un triste menefreghismo. Ma perché arrendersi, perché non sognare altro? E poi mi dico che forse i segni di chiesa sono già presenti, anche se non così evidenti, pubblicizzati, dentro le esistenze di tanti, che già si fa comunità sulle scale dei nostri condomini, fra chi ha figli che frequentano le stesse attività, che i semi di questa fraternità reale sono sparsi ovunque e attecchiscono. Mi spartisco interiormente fra la speranza e la depressione. E poi mi domando che contributo offro personalmente perché quelle in cui sono immerso siano comunità, fraternità e non agglomerati anonimi, aggregati indistinti. Organizzo le cose o incontro le persone? Aspetto che cerchino me o sono io a cercare? È l’agenda che mi governa o accolgo l’imprevisto? Enzo Bianchi nell’articoletto che ho inserito nel foglietto scrive: “La Chiesa ha dimenticato che uno dei suoi primi nomi era adelphotes, fraternità: è così che l’apostolo Pietro chiama la Chiesa, quasi a ricordare che se non è fraternità è non-Chiesa, è scena religiosa, è rito umano venerabile, ma non è comunione con gli altri e con Dio”.


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